Quando Selvino ebbe il suo Garibaldino: Daniele Piccinini, Capitano dei Mille
A cura di Aurora Cantini
Parlare di Risorgimento a Selvino vuol dire raccontare del “Cacciatore” Daniele Piccinini, che aveva casa nel paese. Fu uno dei più fidati collaboratori di Giuseppe Garibaldi, sempre arguto e schietto, senza tante lamentele e frivolezze. Risultò molto utile nella sua capacità di orientarsi bene lungo i sentieri e le boscaglie più intricate. Se gli altri erano in difficoltà, li esortava quasi brusco: «Poche parole, capìt? Giù la testa e avanti. È bassa la terra.»
Sbarcato in Sicilia con I Mille nella storica spedizione del 1860, durante una battaglia si mise davanti a Garibaldi coprendo con il proprio impermeabile la camicia sgargiante del Generale, che era assediato da un lancio di pietre. Senza mezzi termini urlò che LUI! il Piccinini, non aveva nessuna intenzione di farsi uccidere come un soldato qualunque a causa di un colore troppo vistoso. Al che il Generale, invece di arrabbiarsi per questa strafottenza, lo prese con sé come aiutante, nominandolo Tenente.
Nacque il 3 giugno 1830 in una casetta nel paese di Pradalunga, un piccolo borgo stretto sulla riva sinistra del Serio, Media Valle Seriana, e crebbe in una famiglia agiata con altri nove fratelli. Il padre si occupava dell’estrazione e lavorazione delle pietre coti e il bambino lo aiutava nelle piccole incombenze. Studiò a Bergamo e poi all’Università di Pavia.
Già nel 1848, a soli 18 anni, Piccinini decise che avrebbe seguito Garibaldi fino alla morte ed entrò nel Battaglione Cacciatori Bergamaschi. Nel tempo libero coltivava la sua passione per l’uccellagione nei suoi casellini da caccia sull’Altopiano Selvino Aviatico, (si pensa che ne possedesse tre, situati poco sopra la Madonna della Neve), una tecnica di cattura che consisteva nell’attirare gli uccelli nei roccoli intrappolandoli con una rete stesa. Per questo soggiornava spesso nell’abitazione che la famiglia possedeva da tempo nel paese di Selvino, posta ai piedi della salita verso Aviatico, oggi nei pressi della stazione di arrivo della funivia.
Nella primavera del 1859, con i Cacciatori delle Alpi, incominciò l’avanzata verso le principali città lombarde, che vennero liberate una dopo l’altra. Tre anni dopo era di nuovo con Garibaldi, sull’Aspromonte, in quell’occasione, a causa di dissidi con i bersaglieri, Garibaldi venne ferito ad una gamba. Piccinini in un impeto di prorompente impulsività ruppe la propria spada pur di non consegnarla al nemico. I Garibaldini vennero arrestati e Piccinini fu liberato solo grazie ad un’amnistia reale dovuta al matrimonio della principessa Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II, con il re del Portogallo. Piccinini, ritornato a Pradalunga, eresse nel suo orto una statua che rappresentava l’Italia ferita (con due stampelle), oggi abbattuto.
Con la presa di Roma nel settembre del 1870 l’Italia era finalmente libera e Piccinini ritornò ad essere il “salsicciaio”, come si definiva. Non partecipò ad alcuna cerimonia di commemorazione negli anni successivi, né desiderò mai richiedere onori e prestigio. Anzi, a chi gli chiedeva delle imprese con Garibaldi, la buttava sullo scherzo, quasi fosse stata una birichinata, un passatempo. Non si sposò mai, ma visse nella grande e antica casa paterna con il fratello Cesare e la sua famiglia; per gli otto nipoti fu sempre lo zio Daniele, forte come una quercia, burbero come il vento di montagna, scherzoso come il torrente delle valli, modesto come un timido ragazzo. Spesso, talvolta anche in piena notte, inquieto e sorpreso dai tanti ricordi, lasciava la sua casa di Pradalunga e si inoltrava lungo il sentiero attraversando poi il fiume Serio, quindi si inerpicava lungo la mulattiera che conduceva a Selvino. Il suo vagabondaggio lo portava a riposare nella sua dimora in montagna.
Era bizzarro, il Piccinini. Uomo ben fatto, alto e possente, non passava inosservato, soprattutto per il modo di vestire: pantaloni di fustagno, panciotto in velluto sopra la classica camicia bianca, e al collo l’immancabile fazzoletto rosso e celeste. Fasciava i lunghi capelli in una bandana, sotto un ampio cappello. I suoi amici di battaglia, i suoi commilitoni avevano preso strade diverse: chi si era avviato verso la carriera politica, chi si era inserito Deputato in Parlamento, chi nei reparti militari, chi aveva preso interesse verso il giornalismo, la letteratura. Ma lui rimase montanaro per tutta la vita.
Il 4 agosto 1889, dopo che da due mesi si trovava nel paesino abruzzese di Tagliacozzo, aveva in mente di salire sul Gran Sasso per una escursione. Per cause ignote dalla sua pistola partì un colpo che lo ferì sotto l’ultima costola. Al momento non sembrò così grave, dato che riuscì a ritornare in albergo. Eppure dentro di sé sentiva che non sarebbe sopravvissuto. Infatti scrisse le disposizioni per il funerale e fece avvisare telegraficamente il fratello Fernando, Sindaco di Pradalunga, che lo raggiunse dopo 4 giorni. Rimase vigile e cosciente fino al 9 agosto, quando il suo indomito cuore cessò di battere. Aveva 59 anni. Fu il figlio di Garibaldi, Menotti, che aveva seguito il Piccinini fin da ragazzino, a dare la notizia ai parenti a casa tramite il telegrafo. Di lui scrissero ampiamente i giornali dell’epoca, perfino a New York si riportò il tragico incidente che gli costò la vita.
I funerali avvennero a Tagliacozzo, ma già l’anno successivo la salma venne trasportata a Pradalunga tramite treno e carrozza. Lungo il tragitto, alle stazioni di Roma, Milano, Treviglio, Nembro una folla di reduci, compagni, autorità civili e militari si assieparono per rendere omaggio al “pirata”; gli amici lo scortarono in silenzio devoto, in testa il Generale Menotti Garibaldi.
Fu seppellito nel piccolo cimitero del suo paese, nella Cappella di famiglia, dove ancora oggi una lapide recita: “Daniele Piccinini, uno dei Mille”
OGGI
La casa di Daniele, una austera struttura rettangolare fornita di numerose stanze, oggi è il rinomato “Caffé Del Piccinini”. Fa ombra e possente vigilanza un enorme faggio posto al centro dell’ampia radura: lì era il giardino del Piccinini, che sotto lo stesso enorme albero, amava trascorrere momenti di silenzio e ascolto. Stava ore teso a sentire le voci mai dimenticate degli amici dispersi sulle alture, dei tanti giovani volti mai svaniti, delle numerose pagine scritte della nostra Storia. Poco più sotto, vicino alla chiesa nuova di Selvino, esiste un’altra abitazione, tuttora di proprietà degli eredi del Piccinini: era l’abitazione dei mezzadri della famiglia con le scuderie per i numerosi cavalli.
Per chi oggi sosta a gustarsi un gelato o un dolce fatto in casa, parrà di sentire un canto, una voce, una carezza leggera tra le fronde degli alberi, come recita l’antica targa: "qui abitò Daniele Piccinini, Capitano dei Mille”.
Blog dell'autrice Aurora Cantini
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